Rizoma freireano 7. Universita’: fare della crisi un‘opportunita’
- Anna Maria Piussi
- n. 7 • 2010
- Visto: 4283
Rizoma freireano 7. Universita’: fare della crisi un‘opportunita’
Anna Maria Piussi
Lo stretto legame tra distruzione dell’università così come l’abbiamo conosciuta, attacco alla scuola pubblica e abbandono dei beni comuni da parte dei governi è uscito allo scoperto con la crisi del sistema con cui il capitalismo neoliberista inesorabilmente si è fatto gioco dei destini del mondo. Una crisi oggi tanto profonda da apparire uno sberleffo insopportabile a chi quel sistema l’ha difeso, e una grande opportunità per quelle e quelli che non ci hanno mai creduto e male l’hanno sopportato. Eppure, chi sapeva di che si trattava finge di non sapere nulla delle cause e degli effetti, e non pare, al momento, disponibile a un ripensamento radicale: al contrario, fa mostra di un attivismo tanto cieco quanto pericoloso per riprendersi il gioco sfuggito di mano.
Forse tocca a noi, che abbiamo a cuore università e scuola per le loro finalità più proprie, sfruttare l’opportunità per un altro gioco, con gli occhi fissi in una visione.
Una visione, un sogno creatore, per dirlo con Mária Zambrano (1986), che ci chiama a un risveglio trasformativo in rapporto alla realtà.
1. Università degli uomini
Presi dentro un sogno ossessivo, ripetitivo e delirante, sembrano gli artefici e i sostenitori del nuovo modello europeo (e occidentale) dell’istruzione superiore e della ricerca nell’era della Società/Economia della conoscenza, modello che l’università statale è chiamata a realizzare, insieme a un numero crescente di enti di ricerca e atenei privati o pubblici-non statali, presenziali, misti, on-line. Alcuni dei quali si propongono ormai senza veli come competitori nel mercato globale della formazione: come una nota università telematica pubblica, che in Italia promuove su grandi quotidiani le proprie mercanzie con offerte tipo “omaggio di mentore light” (sconto delle spese per il tutor individuale) all’atto di iscrizione entro una certa data. Possiamo sorprenderci e scoprirci moralisti, ma più utile è riconoscere che la logica del compri tre e paghi due ha pervaso l’intero sistema universitario, trasformato in azienda, pur declinandosi in modi diversi, a volte difficilmente decifrabili, ma sempre in nome della modernizzazione e dell’allargamento democratico dell’istruzione superiore e della ricerca.
Perché di questo si tratta: il processo riformatore, noto come Bologna process - iniziato negli anni ’80 ma avviato formalmente nel 1999 dai ministri dei paesi europei nel quadro della globalizzazione economica e dell’internazionalizzazione dell’istruzione superiore, processo che ha prodotto a cascata, dall’alto in basso, un flusso di innovazioni continue per cui nulla sembra più come prima, si pone come interprete di una nuova e moderna idea di cittadinanza democratica basata sull’acquisizione di beni immateriali, conoscenze e competenze necessarie a fronteggiare le sfide del nuovo millennio e a non rimanere esclusi. Esclusi da che? Non da una convivenza sociale più giusta, più a misura di tutti e di ciascuno, a cui partecipare e contribuire con le proprie vocazioni, possibilità e desideri insieme alle altre, agli altri; non da un mondo alla ricerca di un nuovo baricentro, necessario alla sopravvivenza stessa del pianeta e garante di una vita umanamente più ricca e possibilmente felice al presente e nel futuro. No. L’esclusione, paventata o reale, riguarda piuttosto la lotta economica e lo sviluppo tecnologico-scientifico da essa richiesto. Questo è il paradigma di democrazia che l’occidente pretende di esportare ovunque: un paradigma bellico e, aggiungo, in definitiva maschile.
La corsa per non restare ultimi nella modernizzazione delle università assume una parvenza tecnica: in ciascun Paese aspirante all’integrazione nel nuovo “Spazio europeo dell’istruzione superiore e della ricerca” i cambiamenti avvengono sotto forma di misure tecniche necessarie a recuperare posizioni, se non a vincere la gara dell’eccellenza. E la modellizzazione uniformante in senso sempre più restrittivo ogni aspetto della vita universitaria – dalle finalità/forme della ricerca all’organizzazione didattica, ai percorsi di apprendimento, dall’organizzazione del lavoro alle procedure di valutazione ecc. - , fino a poco tempo fa non è stata contestata nella misura in cui non si è proposta come ideologia, ma come modello tecnico che risponde a problemi tecnici. Sono state sopportate norme e misure crescenti, la cui capillarità, sinonimo di efficienza e garanzia di trasparenza, si spinge fin dentro le pieghe dell’esperienza soggettiva fino a stravolgerla, penetra nei desideri di chi fa ricerca, insegna e apprende e nelle loro relazioni, per sollecitarli, monitorarli, valutarne la conformità agli standard, e in definitiva per far sì che uomini e donne, giovani e adulti – il capitale umano - si adeguino al nuovo ideale, il manager, diventando il più rapidamente possibile anche manager di se stessi. Una serie di slittamenti di senso ha accompagnato, in modo quasi impercettibile ma apparentemente inarrestabile, le trasformazioni materiali e immateriali della vita universitaria, come in generale le forme di vita, e i soggetti che la abitano. Il paradigma mercantile produttore/consumatore, fornitore/cliente ha stravolto i rapporti sociali e le relazioni tra soggetti, sottoponendoli alla pressione meritocratica e utilitaristica e a parametri prettamente aziendali. La formazione, anche quella universitaria, è diventata merce spendibile (forse) per l’occupabilità nel mercato. E il soggetto in formazione, trasformato in consumatore di eventi-oggetti formativi, è esentato dall’interrogarsi sui propri personali bisogni, obiettivi, desideri, motivi di sviluppo. E’sufficiente che si concentri sull’obbligo di accumulare sempre nuovi pacchetti di conoscenze e competenze, raggiungere in fretta e superficialmente crediti e punteggi nell’ottica di una continua, astratta, certificazione di conformità, e saper gestire al meglio, individualmente, la libertà di scelta tra differenti, molteplici, virtualmente infinite opportunità. Ma le scelte non hanno nulla a che fare con una dimensione di senso che implichi spazio di ripensamento radicale, dubbio, traversia vissuta, fedeltà a sé, desiderio,vocazione.
Le attuali catastrofi finanziarie ed economiche a livello globale, con i relativi tagli a istruzione e cultura, si sono incaricate di mettere a nudo, se ancora ce ne fosse bisogno, un paradigma di progresso che non fa progredire, hanno svelato la contraffazione della politica universitaria come pura amministrazione tecnica (governance), e, ancor più, la finzione di un’idea di società finalmente centrata sul valore del sapere e sulla sua partecipazione democratica. Favole, appunto. In realtà gli stati-nazione e i loro governi – di destra e di sinistra - si sono fatti interpreti politici delle istanze del mercato deregolato, e con la crisi sono pronti ad abbandonare il fardello della formazione, della ricerca, della cultura diffusa e partecipata, salvando solo le punte di “eccellenza”, quelle funzionali a interessi ristretti. E mentre il mondo si sporge su un futuro incerto, l’Europa si attesta ripetitivamente e rovinosamente sugli obiettivi della Carta di Lisbona, ossia fare dell’Europa, entro il 2010 (!), “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”: una visione di tecnocrati che mal sopporta tutto ciò che eccede l’orizzonte della contabilità, finanziaria e politica, spicciola e di breve respiro, e del tutto priva della capacità di guardare un po’ più in là, a ciò che sta avvenendo ad esempio in Usa e Brasile, due grandi paesi molto diversi fra loro che hanno deciso di cambiare rotta investendo su istruzione, ricerca e salute per tutti, scommettendo (forse) su una nuova civiltà.
Nelle recenti mobilitazioni italiane e internazionali [1] le/ i nostri studenti e i giovani ricercatori precari, un’intera generazione a rischio di presente e di futuro, con ragione hanno assunto come paradigmatica la frase “Non pagheremo noi la vostra crisi”. E con intelligenza politica hanno scelto la parola crisi per dire non solo la catastrofe economica, ma, ancor più, la caduta di un intero modello di società e di civiltà. Hanno registrato a partire da sé i guasti della modernizzazione neoliberista: precarizzazione e sfruttamento intensivo del lavoro, abbassamento della qualità della formazione, gerarchizzazione della qualificazione intellettuale e dei saperi secondo i parametri dell’utile economico, ma anche scomparsa di intere tradizioni culturali, omologazione delle differenze e delle narrative locali, impressionante aumento delle disuguaglianze socio-economiche e dell’ingiustizia, sussunzione della politica alle ragioni del mercato. Anche in Spagna, come in altri paesi europei ed extraeuropei, si è fatta sentire la voce delle/degli studenti insieme a quella delle/dei docenti più attenti e sensibili: insieme hanno dato vita a pratiche a partire da sé e dai propri desideri e a modi creativi di abitare l’università come laboratorio di nuovi stili di vita e di pensiero (Miralles Lucena, 2009).
2. L’università di donne (e di uomini che non amano il potere)
L’università a rischio di distruzione è quella maschile: non più patriarcale, ma dei fratelli, parricidi delle proprie genealogie simboliche e di qualsiasi principio di autorità, che nella lotta per il potere e per i suoi privilegi si alleano e/o competono tra loro (e con le sorelle). Che l’università e la scienza occidentali come istituzioni siano storicamente creature maschili, è noto. Meno nota, forse, è l’imponente tradizione che ha costruito queste istituzioni come mondi senza donne [2], abitati e parlati da uomini celibi, incapaci di relazioni con l’altro sesso. Macchine celibi e misogine, anche quando con la secolarizzazione hanno aperto le porte alle donne includendole e assimilandole. Scienza moderna e università, sua istituzione principe in quanto legittimata a rilasciare titoli riconosciuti, si sono costruite sotto il controllo e l’egida della Chiesa latina e dell’ideale ascetico-clericale del dotto e dello scienziato, cancellando tutto un mondo precedente (all’incirca il I° millennio dell’era cristiana) fatto di scambi con donne colte e sapienti, con culture e popoli altri (“barbari”, arabi), di meticciati linguistici non ancora soppiantati dalla lingua dei dotti, di monasteri in cui vivevano, insegnavano e imparavano insieme uomini e donne di autorità riconosciuta, di scuole e accademie sorte in modo spontaneo in cui transitavano liberamente giovani di tutta Europa inseguendone la fama secondo le proprie passioni. L’ideale celibatario, di discendenza clericale, escludendo le donne e la loro civiltà, ha modellato le università come luoghi dell’Uno, omosociali e misogini, ma ha altresì dimezzato la scienza occidentale, deformandola in produzioni astratte, artificiali e lontane dalla vita, in discorsi spersonalizzati e apparentemente disincarnati.
Nel secolo scorso le donne sono entrate in numero crescente nell’università, contribuendo a trasformarla in università di tutti (lo preferisco a “di massa”), e vi hanno portato il loro amore per lo studio e per la ricerca fino a sorpassare quantitativamente e qualitativamente i colleghi in molti settori. All’esclusione femminile si è sostituita la pretesa alta delle donne- di quelle almeno che non si accontentano di includersi cancellando la propria differenza - di farne un luogo di nutrimento culturale e spirituale, di tessitura di relazioni non strumentali, di libera ricerca e scambio di saperi utili per la qualità della convivenza umana e per un’altra civiltà di rapporti. Proprio nel momento in cui l’università pubblica viene abbandonata a favore di altre istituzioni più remunerative quanto a prestigio, potere e denaro, desideriamo nutrirla di cose buone restituendole il suo volto femminile, che non esclude gli uomini ma il loro attaccamento al potere, sapendo che il desiderio di felicità, di senso, di qualità delle relazioni, di bellezza, non si può eludere, altrimenti la sofferenza e la guerra quotidiana diventano infinite. E per questo ci vuole capacità di far leva sul buono che già esiste, sui desideri non tacitati dall’eccesso di offerte o di vacue incombenze, sulla fiducia di poter fare con altri, per sé e per gli altri, quello che non si può fare da soli quando si è mossi da un desiderio grande, non da interessi proprietari. E ci vogliono libere invenzioni, perfino più spregiudicate dello spregiudicato capitale; e mediazioni atte a farci uscire dall’imbuto sempre più stretto che risucchia al ribasso quel flusso di corpi, menti, linguaggi, relazioni, incontri, scontri, apparentemente disordinato ma vitale, necessario all’università per farla essere secondo se stessa. E riattivare il circolo in cui cose e senso delle cose si combinano in modo nuovo aprendo possibilità impreviste, insieme a quella competenza a esserci che (ci) restituisce mondo e verità anche quando i conti non tornano. Ci vuole politica. Quella politica in prima persona e in relazione con altre, altri, che trasforma lingua e mondo, e fa dell’università un luogo di vita associata favorevole alla libertà e all’intelligenza personale e collettiva, produttrice di cultura come bene in sé, un bene comune necessario per coniugare libertà e convivenza e portarle a livelli alti di civiltà.
Possiamo dunque immaginare che l’attuale crisi segni la fine dell’università come istituzione dell’Uno, durata un millennio al servizio dei vari poteri di turno ma sempre maschili, e l’inizio di una nuova universitas, intesa come vita universitaria che si fonda sul “potere di unire” (Pulcini, 2003), recuperando l’etimo antico di “insieme delle cose create” e abbandonando quello medioevale di “corporazione” (oggi casta universitaria, iperspecialismo ecc.).
Possiamo attribuire alla nuova universitas il compito di ribaltare alla radice, non da sola ma nello scambio con le energie pensanti del corpo sociale più vive e libere, vicine e lontane, il paradigma antropocentrico ed etnocentrico maschile, di ripensare alla radice le forme della convivenza e gli stili di vita, riportandoli all’essenziale, ai bisogni e ai desideri irrinunciabili degli esseri umani, sottraendoli alla forza del mercato e dell’industria del consenso, che li riducono a bisogni indotti, anche nello studio e nella ricerca. Si tratta di un compito intellettuale e politico che chiede all’università stessa di trasformarsi radicalmente, uscendo dal mito della modernizzazione al servizio dell’innovazione competitiva, i cui unici referenti sembrano essere i progressi delle tecnoscienze e gli interessi di aziende e privati; ma anche uscendo da sé in quanto istituzione autoreferenziale, per farsi processo istituente aperto, in una tessitura continua tra dentro e fuori (e per ciascuna/o anche tra propria interiorità e mondo) per un commercio sociale e simbolico (di parole, di senso) che non esclude niente e nessuno.
Provare dunque a puntare sulla “vita universitaria” e non sulla università intesa come istituzione: investire nei percorsi di autoformazione tra più o meno giovani e più o meno intermittenti lavoratori/lavoratrici della conoscenza e studenti/esse. Si creerebbe in tal modo una nuova relazione formativa che tiene conto della “qualità sociale” dei saperi come occasione di messa in comune del lavoro, di partecipazione di soggetti altri rispetto a quelli tradizionalmente interni all'Accademia, di apertura e di presa di parola pubblica, critica e collettiva, parlante il linguaggio della condivisione piuttosto che quello della separazione e dei tecnicismi: una nuova relazione formativa sempre eccedente rispetto allo status quo culturale, politico, sociale.
Sperimentare lo spazio universitario, non più come cittadella arroccata, ma come reale spazio aperto alle innovazioni sociali, e non, come oggi il discorso pubblico invita a fare, tutto dedicato alle innovazioni scientifico-tecnologiche finalizzate alla competizione economica. Insomma, provare a inserire la radicale trasformazione dell'università nel contesto di un ripensamento dell'intero sistema di rapporti, auspicando che l'università in mutamento e oggi in crisi sia una delle occasioni dalle quali partire per rendere possibile questo cambiamento.
Dunque, fare università per aprire un altro orizzonte dell’economico e del legame sociale.
E’ quanto ci chiedono, ormai esplicitamente, quelli che dovrebbero essere, insieme ai docenti-ricercatori, i protagonisti dell’università, le/ gli studenti, quando reclamano un tempo più lento per studiare, avendo capito che studio e vita, esperienza soggettiva e scienza si nutrono reciprocamente e separati deperiscono. Il loro desiderio, a cui hanno dato voce da una parte all’altra del mondo, di una formazione per sé e non per il profitto, per imparare a convivere pacificamente e non per addestrarsi alla lotta economica, per comprendere la propria vita e il mondo e non per diventare risorse umane del capitale, è già un orientamento per la nuova universitas. Ci mostrano un’altra economia. Più lucidi di noi, come spesso accade a chi è senza potere, sono già oltre la logica dei bisogni (formarsi per un titolo di studio e per l’occupabilità) e dei diritti (formarsi come diritto di cittadinanza), pur non negandola. Hanno capito che il desiderio è il motore dell’imparare e del ricercare, elemento di trascendenza dell’agire umano non saturabile dal mercato capitalistico; che il bisogno di esserci in prima persona, sostenuto da relazioni libere e di qualità, diventa energia moltiplicativa, apre uno scambio in cui il poco che si sa e si porta ha la forza di smuovere la geografia di ciò che è giusto fare e dire, per adeguarsi alla quale se ne vanno le energie migliori. Perciò sempre più numerosi chiedono e praticano l’autoformazione e l’autoriforma (Muraro, Rovatti: 1996), figure dell’autorganizzazione condivisa di vita e sapere che risponde a un bisogno del nostro tempo.
Oggi più che mai siamo consapevoli che l’abbondanza delle conoscenze e delle competenze specialistiche non sono garanzia di maggior libertà, di vita migliore, e coscienza e azione non vanno automaticamente insieme. Di fronte all’attuale paradosso di un eccesso di co/scienza che si accompagna a un diffuso senso di impotenza, ci soccorre la grande forza immaginativa di Virginia Woolf (1975) quando, negli anni critici tra il 1936 e il 38, combattendo la vacua vanità delle università che escludevano le “figlie degli uomini colti” e insieme a loro la cultura della convivenza pacifica, proponeva un’istruzione su basi diverse: un college giovane e povero, sperimentale e avventuroso, capace di integrare, invece che segregare e di specializzare, fatto di materiali non costosi e affrescato ogni anno dalle nuove generazioni, con libri accessibili e nuovi, e in cui si insegnano le arti che richiedono poca spesa e possono essere esercitate da gente povera, l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri, facendo lavorare insieme mente e corpo in nuove combinazioni che rendano buona la vita umana, con insegnanti scelti tra coloro che sono bravi a vivere oltre che a pensare. In un college povero cadrebbero le barriere di ricchezza e di etichetta, esibizionismo, competitività e invidia che rendono invivibili le università; lì ci si potrebbe muovere e parlare liberamente, e scrittori e musicisti e altri verrebbero a insegnare certi a loro volta di poter imparare, e l’apprendere e creare cultura non dovrebbero sottostare a esami, diplomi, fama, profitto ma corrispondere alla bellezza dell’imparare, scoprire e pensare in prima persona insieme con altri. Luogo vitale, spazio pubblico e politico dove la tristezza evapora con il crescere delle esperienze condivise che hanno senso, con il moltiplicarsi contagioso delle relazioni disinteressate che fanno star bene e danno misura, con il recupero della qualità sulla quantità, e in cui giovani e adulti possono portare il meglio di sé in un mercato di idee, di saperi, di competenze umane che, mentre attivano un nuovo legame sociale salvando l’elemento della fiducia e della disponibilità a lasciarsi trasformare nell’incontro anche imprevedibile con l’altro, con altro, si offrono al vaglio continuo della società per farla più libera. Un fare molto con poco.
Qualcosa di tanto desiderabile (e a portata di mano) da soppiantare le attuali istituzioni universitarie che di risorse e desideri fasulli spesso si nutrono, incattivendosi ancora di più quando si scoprono “povere”.
Referencias bibliográficas:
Aa.Vv. (2006) Studiare con lentezza. L’università, la precarietà e il ritorno delle rivolte studentesche. Roma: Ed. Alegre.
Aa.Vv. (2008) Università globale. Il nuovo mercato del sapere. Roma: Manifestolibri.
Barnett Ronald (ed) (2008) Para una transformación de la universidad. Barcelona: Octaedro..
Miralles Lucena Rafael (2009) Estudiantes que despiertan a la universidad. La pedagogía oculta del movimiento anti-Bolonia. Cuadernos de Pedagogía, 390, 21-26.
Muraro Luisa, Rovatti Pier Aldo (1996) Lettere dall’università. Napoli: Filema.
Noble David (1992) A World Without Women. New York: Knopf.
Pulcini Elena (2003) Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura. Torino: Bollati Boringhieri.
Roggero Gigi (2009) La produzione del sapere vivo. Crisi dell’università e trasformazione del lavoro tra le due sponde dell’Atlantico. Verona: Ombre corte.
Woolf Virginia (1975) Le tre ghinee. tr. it. Milano: Feltrinelli.
Zambrano María (1986) El sueño creador. Madrid: Turner.
Sitografia
Edu-factory (www.edu-factory.org)
[1] In realtà le mobilitazioni spontanee di studenti, ricercatori, precari, docenti in vari paesi europei, asiatici, e nordamericani sono iniziate già da alcuni anni, creando network e incontri internazionali per ripensare radicalmente secondo nuove visioni l’università e il lavoro intellettuale posfordista ( v. ad es. il convegno “Rethinking the University: Labor, Knowledge, Value”, University of Minnesota, 11-13 April 2008). Un noto network cooperativo è Edu-factory (www.edu-factory.org) impegnato a progettare, fuori e contro il mercato della formazione, una global autonomous university, la costruzione di un network transnazionale di ricerca, educazione, produzione di conoscenza a partire dalle esperienze di lotta e di libera creazione di saperi (v. Aa.Vv., 2008). Si pensi anche al nascere di iniziative libere, non contro ma oltre le istituzioni universitarie: in Italia, ad esempio, sono nate negli ultimi anni: la Libera Università dell’Autobiografia, l’Università del Bene Comune, la Libera Università dell’Incontro, la Libera Università dell’Economia sociale, ecc.
[2] E’ la tesi originale di uno storico, David Noble (1992).