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vol 15 • 2013

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Il corpo docente: Sessuazione della didattica, eros pedagogico e autorità magistrale

Il corpo docente
Sessuazione della didattica, eros pedagogico e autorità magistrale

di Giuseppe Burgio

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Monologhi

Secondo Luce Irigaray [1], il nostro pensiero, poggiando sul predominio dell’uno rispetto al molteplice, è incapace di teorizzare i due sessi: nel rapporto io-altro, l’io non è mai articolato negli io (maschile e femminile), rimane unico, e maschile. La filosofa ha così posto all’attenzione culturale il problema della sessuazione del pensiero, criticando il fatto che l’Uomo, come animale razionale, dotato di linguaggio, supposto rappresentante tutto il genere umano, sia sempre stato il solo soggetto possibile del solo discorso possibile [2].

Già nel momento della teorizzazione scientifica, il soggetto della conoscenza non è mai una persona concreta (maschio o femmina): è il si impersonale e neutro che non dice mai in cosa è implicato. Nei testi scientifici “si evince chiaramente che…”, “non vi è chi non veda…”, “si concorda generalmente sul fatto che…”. Si attua cioè la mistificazione di una impersonalità che maschera una scienza fatta in realtà da uomini [3]. Infatti, sotto questo ànthropos asessuato, il soggetto che “evince”, “vede” e “concorda”, è in realtà sempre tacitamente maschile. Già a partire dal Fedone platonico, infatti, verità, oggettività e universalità (che costituiscono il paradigma centrale della Scienza) sono state considerate appannaggio pressoché esclusivo del genere maschile, realizzando una duplice esclusione dalla sfera del conoscere: esclusione del corpo (e delle facoltà umane considerate fuori dalla razionalità) ed esclusione delle donne. Questo meccanismo non è né recente né episodico, dato che il nostro pensiero è tradizionalmente dominato da tutti quegli opposti dicotomici a partire dai quali il soggetto si fonda come soggetto conoscitivo [4].

Quello che la filosofa intende è che quello occidentale è un pensiero duale in cui ciascun elemento si definisce in opposizione a un altro, suo limite negativo: pari e dispari, bene e male, vero e falso, essere e non essere, maschile e femminile... Ciascuno dei due termini non può darsi senza l’altro ma è sempre il primo termine a essere più forte, a definire l’orizzonte di senso. Il secondo è il contrario, la negazione, la contestazione del primo (che comunque viene riaffermato), ed è sempre connotato negativamente: destra-sinistra (la mano del diavolo) o pari e dis-pari, dove il prefisso dis - indica in greco antico opposizione, dubbio, difficoltà, incertezza, male. Il dis del secondo termine distrugge il significato buono della parola che precede, come in dis-ordine, dis-grazia, dis-omogeneità, ecc. Ma la più classica delle dicotomie è, chiaramente, quella maschio-femmina. Quella di Irigaray si mostra allora un'operazione – di ascendenza derridiana – che critica l'architettura binaria con cui è costruita la differenza sessuale, in quanto presuppone un'implicita gerarchia e la subordinazione di un termine al suo opposto [5].

Nella tradizione culturale occidentale, la donna è infatti storicamente “mancanza” rispetto all’uomo, fase imperfetta di un modello che prevede – a ben guardare – un unico sesso: da Galeno e Sorano, che pensavano addirittura i genitali femminili come genitali maschili non del tutto sviluppatisi e, quindi, la donna come quasi-uomo, per arrivare a Freud e alla sua teoria della donna come uomo castrato, conseguentemente caratterizzata dall’invidia del pene. Il dominio dell’uomo sulla donna si annida insomma nelle strutture stesse del nostro pensiero che, al tempo stesso, rappresentando e legittimando un ordine sociale, non può non rispecchiarsi nelle varie discipline di studio. Basta fare qualche grossolano esempio: 1) la filosofia è un affare di uomini e, dopo Diotima, il personaggio citato da Socrate nel Simposio platonico, dobbiamo aspettare il XX secolo, con De Beauvoir e Arendt, per incontrare una filosofa; 2) l’antropologia, secondo Ivan Illich [6], ha a lungo studiato uomini e donne come ànthropoi indifferenziati; 3) le scienze linguistiche, afferma Irigaray, “non hanno preso in considerazione, e a volte rifiutano perfino di farlo, il problema della sessuazione del discorso”, non sospettando “che la sintassi e la struttura sintattico-semantica siano determinate sessualmente, non neutre né universali e atemporali” [7]; 4) Thomas Laqueur ha mostrato [8] come, nei secoli, l’anatomia abbia studiato – e rappresentato graficamente nei manuali – solo corpi maschili (quelli femminili apparivano solo nel capitolo dedicato all’apparato genitale); 5) le letterature contemplano una rarefazione delle letterate, con enormi lacune che separano Saffo da Gaspara Stampa, e quest'ultima dalla Morante...

L’elenco potrebbe continuare, ma quello che ora importa sottolineare è che questa “monologicità” – questo monologo guidato da una sola logica (maschile e incorporea) – è un problema culturale, perché la differenza sessuale sta al cuore della conoscenza. Non è possibile un sapere astratto, disincarnato, universale, una visione trascendente e scissa dalla corporalità. Il soggetto di conoscenza, in quanto corporeo, è parziale e posizionato in tutte le sue forme. E il corpo stesso non è pura natura, ma specialmente cultura, cioè punto di intersezione tra il biologico, il sociale e il simbolico [9]. Non esistono allora visioni astratte, im-mediate e innocenti. Esistono solo sistemi di percezione attivi, che elaborano traduzioni e modi specifici, incarnati, sessuati, di vedere. Solo una prospettiva consapevolmente parziale, che ha a che fare con conoscenze posizionate (perché situate in un corpo), può promettere una conoscenza intellettualmente appagante.

L'insegnare

Come è accaduto nella costruzione del sapere, anche la sua trasmissione si è storicamente manifestata nella didattica scolastica come riaffermazione di un principio unico, come misconoscimento delle differenze. Dalla lezione all’esame (indifferentemente dal sesso del docente), un insegnante possessore del sapere, unico detentore della parola, depositava presso un uditorio ricettivo, passivo, muto, il suo segno (insegnare viene dal tardo latino insignare: imprimere un segno, marchiare) che veniva custodito dagli studenti e riconsegnato dopo un po’ di tempo al docente che sostanzialmente giudicava se era conforme a lui stesso, simile al suo autore, degno della sua causa, in ultima analisi se rispecchiava il docente. Unico elemento attivo in questo rapporto era chi erogava nozioni, principio e fine di un percorso che avrebbe dovuto essere di arricchimento reciproco. È un modello simile alla concezione greca antica che affidava all'uomo l'atto creativo di inseminare e alla donna quello di custodire dentro il suo utero il seme e “cuocerlo” per portare a compimento il feto.

Alla base del processo didattico stava insomma un rigido dualismo pieno/vuoto, un riproporsi dello schema per cui l’altro (gli studenti nella relazione educativa, l’ambiente naturale, i soggetti colonizzati nei contenuti educativi...) non ha altra funzione che contrapporsi antiteticamente all’uno, solo per riaffermarlo in una sintesi superiore (come faceva la donna che riceveva il seme maschile). Ma la comunicazione del sapere non può essere rappresentata come un oggetto che si dà o si prende, è una relazione(di insegnamento-apprendimento) che deve essere appagante (dal punto di vista conoscitivo e relazionale) per tutti quelli che volontariamente vi si mettono in gioco. Altrimenti è violenza epistemica [10].

Intendo dire che c’è stata una forte continuità tra la costruzione della conoscenza all’insegna della negazione della differenza sessuale e la trasmissione di questa conoscenza. A sostenere questa continuità siamo stati noi uomini che, non a caso, come ipostasi del sapere, abbiamo scelto Athena, una divinità guerriera nata senza l’apporto di una madre e completamente indisposta all’amore. Tocca quindi prioritariamente a noi uomini affrontare questo problema teorico [11].

Differentemente dall’ambito della produzione del sapere, quello dell’istruzione scolastica appare però popolato in stragrande maggioranza da donne. I servizi scolastici e formativi in genere, infatti, concentrano in profili professionali ormai socialmente dequalificati l’impiego di lavoratori a tempo determinato, precari e quindi... femminilizzati [12]. La formazione è ambito femminilizzato (cioè precarizzato) e quindi femminile. Tocca quindi principalmente alle donne assumersi oggi una responsabilità trasformativa in un mondo formativo fortemente femminilizzato. Se sicuramente, l'istruzione trasmette una rappresentazione patriarcale fondata sull’omologia tra il rapporto uomo/donna e quello adulto/bambino [13], contemporaneamente è però luogo di contraddizioni che introducono un cambiamento nei rapporti tra i sessi [14]. Molte docenti hanno infatti una coscienza femminile raffinata e documentata che segna, in linea di principio, una contraddizione di genere con la tradizione culturale occidentale. I contenuti dell’insegnamento spesso danno conto del taglio della differenza sessuale, in moduli specifici, in proposte tematiche anche molto valide… Questa feconda dialettica non trova però, a mio avviso, un concreto e diffuso riverbero nella pratica didattica, non si è tradotta in maniera esplicita nel tentativo di rintracciare i meccanismi quasi invisibili che ogni giorno – nelle lezioni, negli esami, nel modo in cui insegniamo e apprendiamo – sono la negazione della differenza. Forse oggi non si tratta più solo di lottare per garantire diritto di cittadinanza scolastica alla differenza maschio-femmina come “contenuto” ma è possibile immaginare anche una nuova trasmissione del sapere: maculata, policroma, variopinta come il trono di Afrodite [15].

È cioè oggi possibile agire su due piani interconnessi: interpretare il discorso culturale come sottoposto a una misconosciuta dimensione sessuale e, contemporaneamente, tentare di definire le caratteristiche di quel che potrebbe essere una pratica didattica differentemente sessuata, all’interno delle varie discipline.

Si tratterebbe di costruire un'educazione “sessuata”, caratterizzata dal superamento di quella diffusa concezione quantitativa del sapere come oggetto da possedere e non come relazione da sviluppare, di quell’avida e competitiva accumulazione di nozioni.

Già nell'attuale organizzazione scolastica, che pure auspica l’emulazione competitiva tra gli studenti, può esistere una didattica collaborativa che si fondi anche sull’emotività, sul riconoscimento dei propri desideri (inevitabilmente differenziali e non comparabili), sul senso culturale, umano e politico delle cose che si studiano. La valorizzazione della relazione educativa può avere luogo però solo in una scuola che non trasmette nozioni ma che accetta il confronto non gerarchico tra saperi diversi (anche tra quelli dei docenti e quelli dei discenti) e non, come si suppone, tra chi sa e chi non sa, tra chi dà e chi prende; una scuola che è disposta a connettere e a far interagire idee che hanno a lezione il loro spazio e il loro senso e non, nella valutazione, la loro ragion d’essere. Si tratta insomma di cambiare quell’ottica finora puntata sul “prodotto finale”, sull’ output, in direzione di un’attenzione al percorso, a un lavoro visto come processo dagli esiti incerti e imprevedibili, determinato in ultima istanza dalle scelte autonome dei discenti.

Il piano di una pratica didattica è una sfida rispetto alla quale non esistono ancora un’elaborazione metodologica, esperienze consolidate, buone prassi. Sicuramente si dispiega quindi come possibile campo di sperimentazione, affidata all’intelligenza, all’esperienza, alla sensibilità delle docenti e dei docenti [16]. Ma come accennavo, già molti elementi di una didattica sensibile alla differenza sono già presenti nella scuola [17], ma slegati, non composti in uno stemma pedagogico. Di un progetto pedagogico c'è allora oggi bisogno, di un progetto che affronti come suo nodo centrale la relazione educativa.

La relazione educativa e l'eros pedagogico

Dentro la relazione educativa, secondo Franza [18], l'insegnante, la maestra, il mentore, “è creato dal discepolo (e allo stesso modo istantaneamente crea il discepolo) che lo elegge risanatore della propria ferita, soddisfacimento della sua domanda. Il mentore tesse la trama della manipolazione, anche nella forma buona dell’ « apertura all’essere», del disvelamento delle cose attraverso un dire appassionato, ma l’allievo s’incatena alla tela nel senso del godimento. E la tela non ha padrone, è il luogo di una simmetria che imprigiona ambedue gli attori, nella crisalide di un incantamento” [19]. È in questo appassionato rapporto di rispecchiamento reciproco, nel voler procedere nella stessa direzione, che si perfeziona la relazione docente-discente, in cui coabitano da sempre non solo il dominio diretto, il condizionamento autoritario, ma anche rapporti di accrescimento reciproco. Il necessariamente asimmetrico rapporto maestro-discepolo si fa così anche rispecchiamento e retroazione sistemica. E questa relazione, simmetrica e circolare, appare chiaramente anche erotica.

Se da un lato, nota Bertolini, “in qualsiasi esperienza educativa non occasionale è presente, sia pure in forma e con intensità diverse, la dimensione erotica della personalità” [20], dall’altro però, occorre che “l’erotizzazione dell’evento educativo sia inserito in un’autentica e consapevole progettualità pedagogica” [21]. L’eros pedagogico non costituisce infatti una variante della sessualità umana ambientata in un teatro educativo, ma una forma autonoma del desiderio e del piacere: il desiderio di insegnare e di apprendere, il piacere che illumina gli occhi di chi ha finalmente capito, di chi si sente spiazzato da ciò che ha conosciuto, la gioia di chi, cercando di spiegarlo, ha capito meglio, in modo nuovo e inaspettato, ciò che conosceva già. L’eros pedagogico e quello sensuale sono certo contigui ma chiaramente distinguibili, poiché il sesso fa certo parte dell’ eros ma l’eros non è esaurito dal sesso: l’eros pedagogico è interno alla relazione educativa, al suo orizzonte di senso asservito, è “una tensione tutta rivolta alla conquista di traguardi non solo tecnici o fisici ma anche psicologici, etici e persino intellettuali, vissuta peraltro sotto il segno della gioia – vorrei dire addirittura del piacere” [22]. Il rapporto docente-discente si presenta come una delle molte forme non sessuali dell’eros e rimanda a una pedagogia che riconosca l’interezza dei soggetti (educatore ed educando) col loro portato di emotività, corporalità, desideri, bisogni…

Ma se l’eros pedagogico non è sessuale, di certo è sessuato, diversificato al suo interno dal taglio della differenza sessuale. Il discorso pedagogico, per come si è storicamente strutturato – secondo alcuni autori – a partire dalla relazione pederastica maestro-discepolo nell’antica Grecia, oltre che come relazione comandata dal desiderio [23], si pone immediatamente come intramaschile, completamente interno alla relazione tra due maschi [24], al punto che Schérer arriva ad affermare che “anche con le femmine il pedagogo è pederasta” [25]. Questo paradigma erotico (pederastico perchè intramaschile) che ha informato di sé, nel bene e nel male, la millenaria storia dell’educazione in Occidente, appare oggi in crisi: da un lato perché l’accadere educativo si è – dopo i Greci – strutturato proprio sulla negazione del desiderio sessuale, sul lutto del corpo [26] e, come indiretta conseguenza, sulla scomparsa dell’ intenzionalità erotico-pedagogica. Dall’altro lato, a causa dell’emergenza di un nuovo soggetto nel panorama educativo – le donne – che non poteva chiaramente inserirsi in tale contesto maschile senza mutarlo radicalmente.

Al modello maestro-discepolo caratterizzato da un amore per i discepoli che (tranne che nel mondo antico) negava la corporalità, il pensiero delle donne ha, con Luisa Muraro, contrapposto la relazione intrafemminile tra madre e figlia come presupposto della (ri) costruzione della soggettività delle donne, attraverso la trasmissione della lingua materna e, con essa, di una genealogia e di un magistero femminile, all’interno di un diverso ordine simbolico [27]. La maternità, il dare alla luce, è un legame che da un lato recupera quella corporalità che il modello pederastico non poteva più gestire e, dall'altro lato, trasponendola nella relazione tra una donna più matura e una più giovane, la rende occasione di un affidamento pedagogico che attraversa il piano affettivo, quello politico e quello intellettuale, per aprirsi a una prospettiva educativa sessuata.

L'autorità pedagogica

Il complesso tema dei rapporti tra educazione, desiderio, affidamento, corporalità e amore, appare lontano dall’essere teoricamente esaurito ma non mi sembra comunque risolvibile senza affrontare il nodo della reciprocità. Tra l’esperienza erotica e quella educativa infatti, nota Bertolini, c’è una corrispondenza: entrambe “sono o si costituiscono nella forma di un rapporto intersoggettivo ed entrambe esigono in tale rapporto un’autentica reciprocità, senza la quale il rapporto educativo si tradurrebbe in una forma violenta di condizionamento da parte di uno dei due protagonisti – il più forte, il più istruito, insomma l’adulto – sull’altro; ed il rapporto erotico si tradurrebbe in una forma, anch’essa violenta, di oggettivazione, di mercificazione di un partner nei confronti soprattutto del corpo dell’altro” [28]. Infatti, nota Sorrenti: “al centro di una «pedagogia amorosa» i rapporti non mantengono la tradizionale sperequazione cronologico-gerarchica tra chi educa (adulto) e chi è educato (non adulto), poiché sparisce l’ unilinearità – dall’educatore all’educando – che contrassegna ogni situazione educativa riconosciuta come formativa. L’«amore pedagogico» è una vocazione che si realizza […] all’insegna della reciprocità, per cui il «seduttore» è anche il «sedotto»” [29]. Insomma, secondo Ferrario, è proprio la “paritarietà psicologica, unita al riconoscimento e all’accettazione da parte di entrambi dell’ineliminabile asimmetria strutturale tra loro in essere, che può generare quei processi di scambio fecondo, e di crescita da parte del discepolo” [30].

Il cortocircuito erotico (inteso nel senso più vasto possibile) della relazione docente-discente si può cioè aprire a esigenze profonde e urgenti connesse all’essere umani : il riconoscimento reciproco delle differenze, l’affidamento, l’accoglimento, l’apertura all’essere attraverso la parola, il risanamento della ferita che ciascun umano ha…

Se nell'affrontare le valenze molteplici della relazione educativa le donne fanno oggi riferimento teorico a quella genealogia magistrale intrafemminile che Muraro ha definito “ordine simbolico della madre”, parlare di sessuazione della didattica, consapevolezza della differenza ed eros pedagogico pone a noi uomini il tema/problema del quadro teorico e pedagogico dentro cui poter (ri)pensare la relazione educativa [31].

Ogni ruolo docente implica, insomma, l’assunzione dell’autorità magistrale (cosa ben diversa dall’autoritarismo) nei confronti dei discenti, il farsi carico di una responsabilità che non si limita solo alla competenza scientifica e professionale, ma comprende anche il piano morale, politico e affettivo. Chi si fa maestro (anche se solo a causa della disoccupazione) non lo è solo della propria disciplina ma, che lo voglia o no, si pone inevitabilmente come modello, che può ovviamente essere accettato o rifiutato dal discente (cui sempre spetta il dare inizio e il dare congedo), ma che non può mai darsi in modo inconsapevole o deresponsabilizzato.Tuttavia, come nel salire una scala o nel saltare un fosso, per abbandonare qualcosa dobbiamo avere la fede che ci sarà qualcos’altro ad accoglierci, qualcuno a sostenerci nel passaggio. Dobbiamo aver fede per compiere il passo, il passo compiuto rafforza la nostra fede. La relazione educativa ha a che fare con la fede, e la fede con il maestro che guida.

Scrive Benveniste riguardo alle connotazioni indoeuropee della fede: “la nozione latina di fidēs stabilisce tra i partners una relazione inversa a quella che regge per noi la nozione di ‘fiducia’ (cfr. confiance). Nell’espressione ‘ho fiducia in qualcuno’, la fiducia è qualche cosa di me che gli metto tra le mani e di cui egli dispone; nell’espressione latina mihi est fides apud aliquem[ ho credito presso qualcuno, ispiro fiducia a qualcuno], è l’altro che mette la sua fiducia in me, e sono io che ne dispongo. [… ] Il ‘possessore’ della fidēs detiene dunque un titolo che è depositato ‘da, presso’ [ apud] qualcuno: il che dimostra che fidēsè in senso proprio il ‘credito di cui si gode presso il partner. [… ] Dal fatto che fidēs designa la fiducia che colui che parla ispira al suo interlocutore, e della quale gode presso di lui, risulta che per lui si tratta di una ‘garanzia’ a cui può far ricorso” [32]. Questa definizione tuttavia non è l'unica possibile: “se si passano in rassegna i diversi rapporti di fidēs e le circostanze in cui essi vengono sfruttati, si vedrà che i partners della ‘fiducia’ non hanno pari statuto. Colui che detiene la fidēs messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo potere. Ecco perché fidēs diventa quasi sinonimo di potestās e di diciō. Nella loro forma primitiva, queste relazioni comportano una certa reciprocità: mettere la propria fidēs in qualcuno procurava in cambio la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle condizioni. È dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente a una protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sua sottomissione” [33]. Tale ambiguità mi pare presente anche nella relazione pedagogica, nella quale è riconoscibile una accezione di fidēs, intesa come dominio, come potestās sul discente, e l’altra, più reciproca, di affidamento del discente che riceve in cambio garanzia e appoggio. Ma se, nella prima accezione, il discente mette la sua fiducia nelle mani del docente che ne può disporre a fini di dominio, in questa seconda accezione “reciproca”, il credito che il docente ha presso il discente rappresenta per quest’ultimo una garanzia di fedeltà alla relazione pedagogica. L’insistenza sul valore della relazione riconfigura cioè il ruolo dell’autorità. Quest’ultima infatti è solo nella relazione, si dà in quanto (e solo fino a quando) si riconosce autorità a qualcuno e al valore del suo dire/agire. Proprio in quanto accadimento simbolico, che può avvenire e cessare in qualsiasi momento, l’autorità esclude qualsiasi possesso. Dandosi a partire dal discente non è in possesso del docente, né ovviamente dello stesso discente, che ne ha fatto dono. Ma, essendo connessa a una disparità riconosciuta, si dà come relazione mobile e può quindi riconoscersi anche al discente. In questo senso, in quanto accadimento relazionale asimmetrico che, paragonabile al dislivello tra i liquidi di vasi comunicanti, genera il cambiamento, può essere enormemente creativa. Creativa in maniera coerente all'etimologia stessa del termine.

“Autorità” (in latino auctoritas) deriva infatti dal verbo augeo e, come nota Benveniste, “nei suoi usi più antichi, augeo indica non il fatto di accrescere ciò che esiste, ma l’atto di produrre dal proprio seno; atto creatore che fa sorgere qualche cosa da un terreno fertile e che è privilegio degli dei o delle grandi forze naturali. [… ] Di questo senso è testimone il nome di agente auctor. Viene qualificato come auctor, in tutti i campi, colui che ‘promuove’, che prende un’iniziativa, che è il primo a produrre una qualche attività, colui che fonda, che garantisce, insomma, l’‘autore’. […] Da questo, l’astratto auctoritas ritrova il suo pieno valore: è l’atto della produzione, […] o la validità di una testimonianza o il potere di iniziativa, ecc. [… ] Ogni parola pronunciata con autorità determina un cambiamento nel mondo, crea qualche cosa; questa qualità misteriosa è quello che augeo esprime, il potere che fa nascere le piante, che dà esistenza a una legge. [… ] Valori oscuri e potenti restano in questa auctoritas, dono riservato a pochi di far sorgere qualche cosa e – alla lettera – di portare all’esistenza” [34]. In questo senso, l’autorità, in quanto spinta generativa, è strutturata dal riconoscersi autor e, dandosene l’ autor ità, e al contempo dal donare autorità, dall’ autor izzare, permettendo all’altro di diventare autore a sua volta [35]. E si mostra come creazione, come possibilità di accesso all’originalità personale propria e altrui, proprio perché si struttura in relazioni interpersonali. Contrariamente all'uso corrente del termine autorità, il suo esercizio più reale e profondo si esprimerebbe quindi nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze e dell’originalità personale, all’interno di un riconoscimento reciproco.

Questa connotazione di autorità – intesa come danza relazionale reciproca, come eros e come fidēs reciproci – propongo come percorso che, aprendosi alla relazione, al riconoscimento, alla creatività, all’essere autore (di sé e degli altri) e all’autorizzare (se stessi e gli altri), possa rispondere alle questioni che l' istanza del riconoscimento della differenza e della sessuazione della didattica pongono a noi uomini impegnati nel mondo della formazione.


[1] Cfr. L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano 1993.

[2] L. Irigaray, Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 279.

[3] Ivi, p. XI.

[4] Ivi, p. 284.

[5] Cfr. P. Di Cori, Genere e/o gender ? Controversie storiche e teorie femministe, in A. Bellagamba, P. Di Cori, M. Pustianaz (a cura di), Generi di traverso. Culture, storie e narrazioni attraverso i confini delle discipline, Mercurio, Vercelli 2000, p. 44.

[6] I. Illich, Il genere e il sesso, Mondadori, Milano 1984, p. 153.

[7] Irigaray, Parlare non è mai neutro, cit., p. 312.

[8] Cfr T. Laqueur, L'identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Roma-Bari 1992 .

[9] Cfr. Il filo di Arianna (a cura di), La differenza non sia un fiore di serra, FrancoAngeli, Milano 1991.

[10] Forse per questo, per la connotazione violenta di certa didattica, ancora oggi la frase “dare una bella lezione” ci fa pensare alle botte?

[11] Cfr. S. Bellassai, L'invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell'Italia contemporanea, Carocci, Roma 2011 e R. Botti, Dioniso e l'identità maschile, Mimesis, Milano-Udi ne 2010.

[12] C. Bertone, Profili di genere a tempo determinato: una ricerca sugli enti locali, in S. Bertolini – R. Rizza (a cura di), Atipici ?, FrancoAngeli, Milano 2005, p. 164.

[13] Cfr. P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998, p. 102.

[14] Ivi, p. 103.

[15] M. Serres, Il mantello di Arlecchino. “Il terzo-istruito”: l’educazione dell’età futura, Marsilio, Venezia 1992.

[16] Per un primo orientamento sui presupposti pedagogici, vedi almeno A.M. Piussi (a cura di), Educare nella differenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, S. Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa 2005, e AA.VV., Con voce diversa. Pedagogia e differenza sessuale e di genere, Guerini, Milano 2001.

[17] F. Frabboni, Europa e formazione: due sullo stesso tandem, in M. Marino (a cura di), Il mito della cittadinanza. Analisi e problemi in prospettiva pedagogica, Anicia, Roma 2005, p. 212.

[18] Mottana distingue, già nel titolo del suo libro, la figura del mentore da quella del maestro, descrivendole come due diverse tradizioni che raramente s’intersecano. Io, invece, vedo le due figurazioni come strutturali e coesistenti in ogni ruolo docente.

[19] P. Mottana, Il mèntore come antimaestro, in Paolo Mottana (a cura di), Il mèntore come antimaestro, Clueb, Bologna 1997, p. 17.

[20] P. Bertolini, L’eros in educazione. Considerazioni pedagogiche, in P. Bertolini, M. Dallari (a cura di), Pedagogia al limite, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 137. Sull’eros del rapporto educativo vedi anche R. Mantegazza, Con pura passione. L’eros pedagogico di Pier Paolo Pasolini, Edizioni della battaglia, Palermo 1997 e E. Dussel, Pedagogica della Liberazione(a cura di A. Infranca), Ferv, Roma 2004.

[21] Bertolini, L’eros in educazione, cit., p. 148.

[22] Ivi, p. 141.

[23] R. Schérer, Emilio pervertito. Rapporti tra educazione e sessualità, Emme Edizioni, Milano 1976, p. 95.

[24] Ivi, p. 98.

[25] Ivi, p. 120.

[26] Ivi, pp. 16-7.

[27] L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.

[28] Bertolini, L’eros in educazione, cit., p. 138.

[29] C. Sorrenti, Il mèntore. Figura della formazione vitale tra emancipazione e nuova dipendenza, in Mottana (a cura di), Il mèntore come antimaestro, cit., p. 51.

[30] M. Ferrario, Mentore e rapporto di mentorato : un modello e un punto di vista sull’applicabilità nella società di oggi, in Mottana (a cura di), Il mèntore come antimaestro, cit., p. 76.

[31] D. Demetrio, Maschi in educazione. Inevitabilmente padri: storie e declinazioni in una figura pedagogica, in AA.VV., Con voce diversa, cit.

[32] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, pp. 86-7.

[33] Ivi, p. 88.

[34] Ivi, pp. 397-8.

[35] F. Fava, Formare alla leadership. L’accesso all’originalità personale, in “Aggiornamenti Sociali”, 12 (2003), anno 54, p. 800.


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