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vol 5 • 2009

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Desalojos Cero. Video partecipativo e dimensione urbana

Desalojos Cero. Video partecipativo e dimensione urbana

Stefano Collizzolli, Università di Padova, Dipartimento di Sociologia, Via del Santo, 2, 35100, Padova (Italia)

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1. Cos’e’ il PV

1.1. Pratiche idiosincratiche, teorizzazioni sfuggenti

Communication that doesn’t go both ways, doesn’t go anywhere

Alan Alda

I metodi di video partecipativo (PV, Participatory Video) hanno ormai più di quarant’anni. Prende avvio nel 1969, infatti, il percorso che ha dato vita al metodo, il Fogo Process.

Tuttavia, manca ancora una definizione condivisa, ed una teorizzazione che tenga coerentemente assieme esperienze di tipo molto variegato: una letteratura pur relativamente vasta si risolve in relazioni di singoli progetti (Ferriera 2006; Gilbert s.d.; Gonzalo Olmos and Ramella 2005; Lunch 2004; Molony, Zonie, and Goodsmith 2007; Odutola 2003; Riaño 1994; Rose 1992; Snowden 1983; Lunch 2004, 2006a, 2006b; Nathanials, 2006; et cetera), e manuali (Braden and Than 1998; Chambers 2003; Clive Robertson and Shaw 1997; Lunch and Lunch 2006).

Anche il contributo più strutturato nel campo, il volume editato da Shirley White (2003), pur essendo completo e prezioso, soffre del fatto che “il suo contributo teoretico è limitato. E’ un libro sulla pratica, più che sulla teoria. E, come tale, non tiene assieme i numerosi case studies in una forte struttura teorica” (Pink 2004).

Questo limite è comprensibile, dato che il PV è un insieme di pratiche essenzialmente operative ed estremamente situazionali ed idiosincratiche.

Il fatto poi che esperienze riconducibili all’intreccio fra partecipazione e video si siano svolte in tempi diversi ed in luoghi diversi nel mondo, in maniera “caleidoscopica” (White, 2003), e spesso senza aver alcuna notizia l’una dell’altra (Huber, 1998) e ripartendo quindi in qualche modo da zero rende il campo ulteriormente sfuggente.

Tutto ciò suggerisce di far precedere l’analisi del case study da una breve introduzione.

Chiameremo quindi video partecipativo, ampliando una definizione di Su Braden e Victor Young “un insieme di applicazioni alternative delle tecnologie audiovisuali in progetti di sviluppo” o in progetti di intervento sociale e politico, “il cui scopo è di produrre cambiamento sociale” o trasformazione individuale. (Braden, Young, 1998).

Caratteristica comune a queste applicazioni è quella di porre l’accento sull’aspetto partecipativo del processo di produzione audiovisiva (Johansson, 1999b). Ciò che determina la possibilità d’impatto sociale di un video non è tanto il suo argomento “sociale”, quanto lo svolgersi sociale, collettivo e partecipato del suo farsi. (Bery, 2003)

Da un punto di vista più applicativo, si può descrivere quello che succede in un progetto di PV raccontandolo come

a scriptless video process, directed by a group of grassroots people, moving forward in iterative cycles of shooting–reviewing. This process aims at creating video narratives that communicate what those who participate in the process really want to communicate, in a way they think is appropriate. (Johansson et al. 1999, 35)[1]

A partire da queste definizioni, per delineare le possibili azioni sociali, ed il loro impatto educativo e trasformativo, mi diffondo ora sul racconto e l’analisi del Fogo Process; e questo non solo per il suo carattere pionieristico, ma anche perché ha assunto con il tempo un carattere paradigmatico, canonico.

Altri punti di partenza potrebbero essere scelti: dal lavoro di Cesare Zavattini in Italia, per un cinema popolare e per la costruzione di una rete di “cinegiornali liberi” (2002, :976-997), alla pluriennale esperienza della FAO. (FAO 1987; FAO and UN 1996).

Gli elementi del canone sono però più interessanti, dato che permettono di capire come un campo guarda a se stesso. Il Fogo Process presenta inoltre il vantaggio analitico di presentare con grande chiarezza alcune delle caratteristiche base dell’approccio.

1.2. Il Fogo process

Per Fogo process si intende un processo di film-making partecipato e di intervento comunitario che si è svolto sull’isola di Fogo, nello stato di Newfoundland, in Canada, principalmente fra il 1967 ed il 1969[2].

Sotto la guida di Don Snowden responsabile del dipartimento di Extension della Memorial University di Newfoundland (MUN) (Extension 1972; Quarry 1984), il field worker Fred Earle, afferente allo stesso dipartimento ed il regista Colin Low, del National Film Board canadese (NCFB), hanno realizzato 28 brevi documentari, cercando, con il coinvolgimento degli abitanti, di creare un’immagine condivisa della vita nell’isola. (Williamson 1973; Williamson 1991).

I 28 film durano fra i 10 ed i 30 minuti; piuttosto brevi ma comunque abbastanza sviluppati per raccontare interamente una storia – che è quello che fanno, dato che, programmaticamente, rifiutano l’intercutting e sono ciascuno il ritratto compiuto ed in sè concluso di una sola persona, o di una sola situazione.

Sono film centrati sulle persone dei protagonisti, e non su tematiche astratte -per dire meglio: film centrati su punti di vista molto situati ed idiosincratici su problemi concreti e trasversali.

Tramite un percorso complesso di proiezioni e discussioni in tutti i villaggi dell’isola[3], questi film hanno originato un processo di autoriflessione ed empowerment a livello locale che ha prodotto concreti risultati in termini di capacità comunitaria di prendere in mano collettivamente il proprio destino. (Huber, 1998; Quarry 1994).

Inoltre i film hanno costituito un decisivo mezzo di comunicazione con il distante potere politico centrale che stava pianificando lo spostamento di tutti gli abitanti in aree economicamente più vivibili: essi furono proiettati al Ministro della Pesca ad Ottawa, che decise di rispondere via video. Questo ha dato origine ad un circuito di feedback, in seguito al quale – ed in seguito al mutamento sociale originato (anche) dal percorso di ripresa, montaggio, proiezioni ed autoriflessione - il governo ha finalmente diretto i suoi sforzi ad aiutare gli isolani a restare là. (Crocker 2003; Crocker 2008).

1.3. Circuiti di feedback

Facciamo un passo indietro, e torniamo alle proiezioni nell’isola. Sempre nelle parole di Don Snowden,

Even though video will be unknown to the community, it is a technology that ordinary people can use and control, and by having the time to become familiar with it in a public setting, they may be encouraged to learn from it rather than to fear it or be mystified by it. Its successful use involves both the screening of videotapes and discussion based on what the tapes have presented. (corsivo mio) [4].(Snowden 1983)

Il fatto di rivedersi come comunità in video, rappresentati da persone conosciute, che parlavano la lingua dell’isola sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale, e che magari, senza il video, non avrebbero preso parola in pubblico, divenne un potente catalizzatore per le discussioni – non solo a riguardo di strategie di lungo termine, ma anche a proposito di questioni di organizzazione comunitaria apparentemente minori, ma importanti:

(The screenings) instant impact was particularly evident at a community Council meeting in Lords’ Cove (…) where playback of the meeting provided those present an opportunity to view the appalling lack of participation and to look at their own apathy. As a result of this realization the meeting was rescheduled, received greater participation and resulted in a new election of officiers[5]. (Extension 1972)

Si stava creando un circuito di feedback interno, via via più vivace e coinvolgente.
In un secondo momento, i film cominciarono a circolare fra i vari villaggi, cosa che era difficile alle persone.

L’isola, pur piccola, era divisa da profonde fratture, di tipo principalmente confessionale. La credibilità che un abitante di un villaggio poteva avere in un altro era molto minore della credibilità che lo stesso abitante, diventato personaggio, risultò avere con la mediazione del video.

Questo circuito di feedback si sviluppa fra comunità e comunità, quindi fra gruppi umani fra loro omogenei ed egualmente periferici nella distribuzione del potere, ma divisi da ostacoli di vario genere; lo chiameremo circuito di feedback orizzontale.

Another thing community workers can do is to take videotapes they have made with one village group and show them to the same kind of group in another village. Video (…) becomes a new form of learning. This is known as horizontal learning and is becoming increasingly acknowledged worldwide as an essential component of education, usually (but not exclusively) among adults. Village people can use video to teach themselves, from within their own village, or between their village and other villages, and they are doing this increasingly.[6](Snowden 1983)

1.4. circuiti di feedback ed azioni sociali

Abbiamo quindi individuato tre dimensioni di funzionamento del processo.

Abbiamo chiamato circuito di feedback interno il dialogo che le proiezioni di film di Fogo hanno innescato all’interno della comunità raccontata e circuito di feedback orizzontale il dialogo innescato fra differenti comunità dello stesso livello. Entrambi questi circuiti di feedback sembrano essere il luogo dove si realizzano dinamiche di costruzione di una fiducia individuale in sé[7] – dalle quali discende una possibile azione sociale terapeutica– e di fiducia collettiva in un noi[8] – dalle quali discende una possibile azione sociale di empowerment.

Abbiamo infine chiamato circuito di feedback verticale l’inedita comunicazione diretta fra centro del potere e periferia che si è realizzata nel corso del processo: una possibile azione sociale di advocacy.

Questa tipologia serve essenzialmente come griglia di orientamento; non vuole avere pretese sistemiche, ma piuttosto il compito di far emergere ipotesi interroganti, tracce di categorizzazione dei fenomeni, delle pratiche e dei significati che ruotano attorno al campo.

Dove però si voglia modellizzare l’approccio, emerge un problema. Snowden nota che per funzionare ha bisogno di un contesto sostanzialmente vergine dalla penetrazione dei mezzi di comunicazione di massa. [9]

Un contesto, insomma, in cui il medium del video sia di per sé abbastanza inaspettato da poter superare le chiuse idrauliche periferia/centro – e non in virtù del suo valore intrinseco (estetico, comunicativo, emozionale) o di una forte azione di rivendicazione che lo accompagni, ma per il semplice fatto di esistere. E che sia così poco quotidiano da poter essere rilevante per l’instaurazione di circuiti di feedback interno ed orizzontale.

A queste condizioni, la possibilità stessa di innescare circuiti di feedback sembra limitata non solo da fattori geografico/socioeconomici e culturali, ma anche da fattori storici. Se si escludono pochissime comunità, la semiosfera (Lotman 1985) umana è ormai globalmente mediatizzata. Bruce Lee è molto popolare fra i bambini palestinesi ed i cinéma de la brousse portano in giro per la savana africana improbabili video CD di violentissimi action movies statunitensi.

Si tratta di un fattore da tenere in considerazione quando si pianifichi un percorso di PV in un contesto urbano – dove le dinamiche appena accennate sono senz’altro più pervasive.

Questo però non rende impossibile immaginare l’instaurazione di circuiti di feedback in contesti ipermediatizzati. Semplicemente, pone condizioni più severe perché ciò possa accadere – ovvero richiede un legame reale fra filmmaking e processi sociali locali.

Alla base dei circuiti di feedback sembrano esserci due elementi: il superamento tecnico della distanziazione spazio-temporale e l’attribuzione di status.

Il primo ha a che fare con la possibilità, per i mezzi tecnici di comunicazione di contrarre e ridisegnare lo spazio ed il tempo. Tramite il possibile superamento di quella che Thompson (Thompson 1995) : 37-39 ha chiamato distanziazione spazio-temporale, gli abitanti di Fogo sono in grado di rivolgersi ai lontanissimi governanti ad Ottawa.

Non si tratta di un effetto puramente tecnico; in effetti, gli isolani utilizzano un mezzo che è tradizionalmente (ed in particolare all’epoca) utilizzato nel campo della quasi-interazione mediata per mettere in atto un’interazione mediata (Thompson 1995) :122-151. Ed è questa probabilmente la ragione del successo: non si tratta solo della semplificazione di fa viaggiare il video, invece di trasferire l’intera popolazione dell’isola ad Ottawa in attesa di un’audizione faccia a faccia -non solo per il risparmio sui prezzi dei biglietti, ma perché, probabilmente, tale audizione non sarebbe mai stata concessa.

E questo ci porta al secondo elemento: l’uso del video consente un’attribuzione di status che rende possibile il superamento delle chiuse idrauliche periferia-centro (Habermas 1996: 423-424) come rende possibile nel caso del circuito di feedback orizzontale il dialogo mediato fra comunità diverse e rivali all’interno dell’isola.

Da cosa dipende questo potere della mediazione audiovisuale di attribuire status?

In primo luogo, dal persistente carattere monodirezionale della stragrande maggioranza dei fenomeni di comunicazione audiovisuale [10]: ogniqualvolta una quasi-interazione mediata diventa interazione mediata, parte della sfera di silenzio che la comunicazione monodirezionale tipica della quasi-interazione mediata porta con se passa all’interazione mediata.

In secondo luogo, dallo status di risorsa cognitiva che il linguaggio audiovisivo, ed in particolare la televisione, ha mantenuto nel corso degli anni (Stella 1999 :27-52.)

Nonostante decenni di denunce del potere manipolatorio ed ideologico delle comunicazioni di massa, tanto a livello teorico quanto a livello di discorso di senso comune, ancora (e forse sempre di più) la comunicazione audiovisiva è il luogo di accreditamento dei saperi – tanto dei saperi cognitivi quanto dei saperi di vita quotidiana.

Un ruolo pervasivo della mediatizzazione può, insomma, a differenza di quello che pensava Snowden, essere un fattore che non solo non ostacola, ma addirittura facilita l’innesco di un circuito di feedback, quantomeno ad un livello orizzontale[11].

Infine, tanto il circuito di feedback orizzontale che quello verticale (e per certi versi anche quello interno) funzionano sui colli di bottiglia della struttura sociale del contesto in cui il percorso di PV è realizzato. Il PV salta barriere: di status, di distanza geografica, di diffidenza o di ostilità. (zaLab, 2007).

Insomma, e nuovamente: la chiave del funzionamento nel processo sta nel legame esplicito fra processo di filmmaking e processi sociali.

E questo è ciò che abbiamo ancora da imparare dal Fogo process: nell’era delle nuove tecnologie, nomadiche e superleggere, che sembrano aver reso obsoleti i concetti di distanza e di vicinanza. Il successo non è stato solo un risultato della tecnologia messa a disposizione degli isolani, ma anche del modo in cui fu integrata nelle loro vite. Gli esperimenti condotti a Fogo riguardando l’uso politico e sociale dei media, sollevano una questione che col tempo è diventata ancora più importante: a cosa servono i media? Ora che è possibile rappresentare qualsiasi cosa, perché dovremmo farlo? Il Fogo Process ci indirizza verso il primo e più basilare problema di politica dei media: che ruolo possono giocare i media nella formazione di strutture politiche collettive? (Crocker, 2008)

2. Case study: un laboratorio urbano

Il laboratorio di PV che costituisce il case study per questo articolo si e’ svolto a Santo Domingo, in Repubblica Dominicana, tra il 18 ed il 27 aprile 2007, nell’ambito del II incontro dell’Università Popolare Urbana dell’Alleanza Internazionale degli Abitanti.

Due le ragioni di questa scelta: in primo luogo, l’estrema contrazione temporale (otto giornate di lavoro effettivo) permette di vedere il metodo all’opera in condizioni estreme, dove più evidenti sono funzionalità e disfuzionalità (ed al contempo riduce la quantità di racconto).

Si è trattato poi di un’esperienza dove la dimensione urbana e’ molto rilevante, e quindi permette di mettere in luce con efficacia le sue possibilità ed i suoi rischi.
Procederò nella trattazione in maniera analitica, raccontando passo passo lo svolgimento del percorso – spero, in questo modo, di rendere il racconto più pienamente fruibile; il mio scopo è quello di fornire non solo spunti di riflessione, ma anche concrete indicazioni operative.

2.1. Contesto e background

L’Alleanza Internazionale degli Abitanti (www.habitants.org) è uno spazio unitario attivo dal 2003 per le associazioni ed i movimenti sociali urbani, che fino ad ora ha visto l’adesione di più di 200 organizzazioni provenienti da più di 30 Paesi. Il suo scopo e’ di consentire lo scambio di esperienze, l’elaborazione di strategie comuni, e campagne per la solidarietà globale come la Campagna Zero Sfratti.

La Rete promuove l’Università Popolare Urbana (http://up.opencontent.it/cdiai/): un processo di incontri di formazione e ricerca, aperta, partecipata e costruita dal basso, e rivolta a leader comunitari ed attivisti nell’ambito del diritto alla casa ed alla costruzione sociale dell’habitat.

In parallelo con il II incontro dell’UPU, [12] si e’ svolto un laboratorio di PV dedicato a partecipanti dominicani.

La situazione dava fin da subito una direzione abbastanza evidente al lavoro collettivo. Tale direzione, che risultava anche dalle richieste, dai bisogni e dalle aspettative dei partecipanti, era quella di un lavoro d’impatto e militante, utile da subito alle priorità della campagna in corso, Desalojos Cero (Sfratti Zero). La campagna, di dimensione mondiale, aveva una particolare importanza in Repubblica Dominicana e nella città di Santo Domingo, che stava vivendo una fase di sfratti violenti di intere comunità. Gli sfratti, spesso illegali, si concludevano con la distruzione delle abitazioni.

2.2. Partecipanti

Hanno partecipato al laboratorio 18 persone, poi divise in due gruppi. Questo numero, molto alto rispetto alle richieste del formatore, deriva dal fatto che ogni organizzazione parte della rete in via di strutturazione in Repubblica Dominicana ha mandato un rappresentante; c’erano quindi sindacalisti, sacerdoti, giovani ricercatori universitari e rappresentanti di comitati di cittadini come Uprobrisas e Junta de Vecinos di Los Angeles[13], o di organizzazione di rete come Codecoc e Conamuca.

Due elementi vanno segnalati a proposito della composizione del gruppo: l’estrema disomogeneità dei componenti, da un lato, e l’omogeneità delle loro motivazioni, dall’altro.

Il gruppo era disomogeneo per età (tra i 20 ed i 65 anni), genere, competenze e capitale sociale dei componenti; soprattutto, non esisteva come tale prima dell’inizio del laboratorio.

Era tuttavia tenuto assieme dal comune percorso di attivismo nel campo delle lotte per il diritto alla casa, e dal fatto che ogni componente partecipava in rappresentanza di un suo gruppo di riferimento più vasto, fosse esso comunitario o politico. Ci si trovava in un contesto, insomma, in cui i noi contavano più degli io, ed in cui gli io si presentavano automaticamente come parti di noi, noi molto prossimi, coinvolgenti l’integralità della personalità e non aspetti di interesse o rappresentanza.

La formazione si è svolta in lingua spagnola.

2.3. Svolgimento del laboratorio

2.3.1. Parte plenaria

18 aprile – plenaria: lancio del taller

Dopo una prima introduzione della proposta, viene proiettato un lavoro uscito da un precedente laboratorio di video partecipativo in Palestina, Sotto lo stesso tetto.(zaLab, 2006)

La proposta laboratoriale viene ridiscussa ed approfondita assieme. Viene poi presentata l’attrezzatura; ciascuno intervista e viene intervistato da un altro partecipante del laboratorio (Lunch and Lunch 2006). Le domande sono solo due: autopresentazione, e attese nei confronti del lavoro comune.

Rivediamo e discutiamo le interviste. Sulle aspettative dei partecipanti viene deciso definitivamente ciò che si farà.

Il gruppo viene poi diviso, sulla base delle necessità logistiche dei partecipanti, in due: uno lavorerà alla mattina, il secondo al pomeriggio. Ciascun gruppo inizia a discutere del soggetto del film. In un finale momento di plenaria, i due gruppi si scambiano e commentano vicendevolmente i soggetti.

Il gruppo della mattina lavorerà sui bambini di strada (tema su cui sono sensibilissimi, ma con cui non sono realmente in contatto: PV come strumento per esplorare la realtà sociale circostante); il gruppo del pomeriggio sugli sfratti (tema che coinvolge direttamente molti dei partecipanti: PV come strumento per raccontarsi ed accedere ad una voice).

Il lato più tecnico della formazione di ripresa è stato affrontato “guidando” i partecipanti mentre sperimentavano direttamente con le attrezzature; nella prima giornata di lavoro si sono affrontati gli essenziali.

Dopo un po’ di teoria della ripresa, con l’introduzione dei concetti del campo ed il fuori campo e della scala dei piani siamo passati a dei semplici esercizi di composizione e narrazione, che poi abbiamo rivisto e commentato.

In un secondo momento, si è svolto un minimo addestramento all’uso del cavalletto, ed esercizi di movimento camera e di movimento personaggio.

2.3.2. I percorsi // il gruppo del mattino (Los niños del sol)

19 aprile: il soggetto

Dopo la formazione tecnica di cui al paragrafo precedente, si son discussi soggetto e trattamento. Questa è una fase che, in genere, si dilata a parecchi giorni di lavoro, dato che ragionare, consensualmente, in termini sociali e filmici non è un percorso immediato.

Decidiamo che il ruolo centrale deve essere dei bambini di strada (escludendo altri soggetti potenzialmente interessanti: bambini non di strada, adulti in rappresentanza dei padri e delle madri…) che intervisteremo ed osserveremo nella loro vita quotidiana.

Il discorso analitico risulterà da un intervista un prete salesiano che gestisce un centro per l’infanzia nel quartiere di Cristo Rey.

Discutiamo a lungo delle domande da fare ai bimbi, del tipo di relazione da instaurare con loro e di come arrivare ad instaurarla.

20 aprile – Primo giorno di riprese – i bambini

Apprendendo una nuova maniera di mettere in frame il reale (anche se l’intervista filmata non sembra andare per il meglio)

Addestramento camere e riprese.

Dopo un rapido ripasso degli elementi teorici e pratici del giorno prima, si forma una troupe: dimostrazione pratica di organizzazione ed uso del materiale, organizzazione del lavoro, segreteria di edizione.

La prima intervista ad un bambino, Manuel, soffre della scarsità di tempo di preparazione, e quindi della scarsa focalizzazione sull’importanza della relazione. Il personaggio risponde pulendo le scarpe all’intervistatore – è il suo mestiere, e si vuole raccontarlo; ma questo imposta una relazione gerarchica, confermata dal tenore delle domande: “Que opìna usted de la problemàtica della niñez?” (risposta: “Dìgame??”).

Poco dell’intervista è utilizzabile e, se lo scopo è entrare in contatto con una realtà che si vuole modificare, certo non è riuscito. A partire dall’esperienza, ridiscutiamo a lungo di questi temi. Una seconda intervista va meglio.

21 aprile – mattina, seconda giornata di riprese: l’intervista al cura

Si tratta di un’intervista di tipo diverso rispetto a quelle da fare ai bambini: non narrativa di storia di vita, ma informativa. Possiamo quindi ragionare in modo diverso sull’impatto che avrà la telecamera ed il nostro agirla, e possiamo scrivere una traccia più stringente. L’intervista, decisamente più semplice, va molto meglio.

22 aprile – mattina, prima giornata di montaggio

Superando la frequente mancanza di corrente elettrica e problemi informatici contingenti, si svolge un’introduzione ai fondamentali del programma di montaggio.

Nel corso dei vari esercizi, emerge drammaticamente la diversità interna del gruppo, in questo caso dal punto di vista dell'alfabetizzazione informatica. Alcuni dei partecipanti non hanno mai usato un computer, e padroneggiare il programma di montaggio è veramente complicato; questo crea una polarizzazione nel gruppo, e qualche tensione fra i partecipanti. Si riesce comunque ad arrivare ad una messa in fila delle riprese di osservazione ed intervista ai bambini.

23 aprile – mattina,

Il montaggio. Una sfida tecnica che rischia di accentuare le differenze interne al gruppo.

Gran parte del gruppo non è presente: sono ad una visita organizzata dall’UPU. Con solo due partecipanti, il lavoro si può condividere ad un livello molto maggiore Grande e positiva tensione lavorativa.

Lavoriamo come guida sull’intervista al sacerdote, discutendo profondamente le posizioni espresse e prendendo solo ciò che ci sembra veramente servirci. Escono undici minuti, che faticosamente riduciamo.

24 aprile – mattina

Al pomeriggio c’è la proiezione alla plenaria dell’UPU. Per la mattinata di lavoro, l’obiettivo è di socializzare al resto del gruppo il lavoro fatto alla mattina e di finire il montaggio per la proiezione del pomeriggio. Ma manca la luce. In genere, verso le dieci di mattina torna; oggi no.

Ci si trasferisce quindi all’università. In meno di due ore, il formatore conclude il montaggio. Il gruppo sta alle spalle, osserva, ed ascolta il montatore che annuncia a voce alta quello che sta facendo. Su qualche scelta c’è anche il tempo di discutere, su altre no.

Nonostante la dinamica tecnico-verticale, la tensione del gruppo ed il suo livello di partecipazione emotiva sono altissimi.

2.3.3. Percorsi // il gruppo del pomeriggio: (Desalojos cero)

19 aprile – pomeriggio

Dopo formazione tecnica ed esercizi, i lavori vengono forzatamente sospesi, a causa della dimostrazione universitaria contro l’aumento dei prezzi dei trasporti pubblici.

Resta solo il tempo di affidare a quelli che vengono da quartieri oggetti di provvedimenti massivi di sfratto di contattare e dialogare con potenziali testimoni, discutendo molto rapidamente del tenore del discorso da fargli.

20 aprile – pomeriggio, Valiente (Boca Chica)

Ci si aggrega alla visita al Barrio di Valiente (Boca Chica), organizzata dall’UPU. Solo all’arrivo risulta chiaro che nel quartiere in questione non ci sono testimoni già contattati. Non è il caso di andare a caccia alla cieca; si prosegue piuttosto l’addestramento all’uso della camera (movimenti di macchina, tecniche della camera a mano).

Gli abitanti del Barrio reagiscono negativamente, ed il gruppo è costretto ad autopresentarsi ed a giustificare la propria azione. Riflessione collettiva sull’impatto delle riprese video, momento di interazione sociale da problematizzare sempre, con conseguente ridiscussione del soggetto e dell’impostazione delle interviste.

21 aprile – pomeriggio, riprese aVilla Esfuerzo e Brisa de l’Este

Prima intervista a Villa Esfuerzo, da cui proviene una delle partecipanti. Accoglienza dignitosissima e tesa, sensazione piena di essere nel mezzo di una comunità che si autoracconta. Molta partecipazione e molto rispetto per le riprese.

La testimone, Jazmin, è stata scelta in un momento di discussione comunitaria collettiva; la troupe è accolta da una buona parte dei componenti della comunità. Alcuni restano ad ascoltare l’intervista, altri no. Si fidano, tanto della testimone, quanto del dispositivo di racconto che le è stato costruito attorno.

Altre due interviste a Brisa de l’Este, in una situazione decisamente più destrutturata

Le riprese a Brisa de l’Este: costruendo un ampio circolo d’ascolto

22 aprile – pomeriggio, visioni e discussioni

Problemi tecnici ci impongono di rinunciare al computer; rivediamo quindi le interviste e, discutendone, strutturiamo un il montaggio a parole. Stabiliamo un personaggio guida –Jazmin, di Villa Esfuerzo - e decidiamo di condurre il montaggio sul suo racconto, ovvero di privilegiare una ricostruzione cronologica su altre possibili (tematica, a flash forward, a blocchi).

La lanterna magica. Il montaggio come dialogo a distanza con la propria comunità.

23 aprile – pomeriggio: montaggio

Gruppo al completo. Introduzione al programma di montaggio; al primo giro di esercizi è evidente che il tempo non basterà: si ripropone il problema dell'alfabetizzazione informatica. Il formatore chiude il momento di apprendistato, ed inizia a montare lui: il gruppo funge da regista che da indicazioni e discute scelte.

2.3.4. I film prodotti; la restituzione:

Desalojos Cero, 8’, miniDV, Italia-Republica Dominicana, colores, 2007
Jazmin, del quartiere di Villa Esfuerzo, assieme a Candida e Cristina, del quartiere di Brisa dell’Este della città di S. Domingo, raccontano di come siano state sfrattate, abbiano visto le loro case distrutte, ma continuino ad occupare i propri terreni abitando in baracche.

Los niños del sol, 8’, miniDV, Italia-Republica Dominicana, colores, 2007
Seguiamo la giornata di Miguel, un bambino che si guadagna da vivere pulendo scarpe. Ascoltiamo anche il punto di vista del prete che gestisce il centro per l’infanzia del quartiere di Cristo Rey, S. Domingo.

La restituzione alla plenaria dell’UPU

La restituzione ha avuto due momenti. In un primo, abbiamo proiettato i due film in chiusura dei lavori dell’UPU. La discussione successiva è composta principalmente di interventi sul contenuto, reazioni emotive. Si cerca di portare il discorso sul metodo; il principale feedback dei partecipanti è sui problemi e potenzialità di mettere d’accordo un gruppo così vasto e diverso.

In generale, i partecipanti sono visti come una nuova troupe a disposizione delle esigenze della lotta.

Due giorni dopo, a Villa Esfuerzo, c’è la proiezione di restituzione alla comunità.

La restituzione alla comunità di Villa Esfuerzo. Al centro, in piedi, con il bimbo in braccio, una delle protagoniste del film “Desalojos Cèro”, Jazmin

Ho intenzionalmente presentato, per questa discussione, un case study con luci ed ombre: sono i racconti più istruttivi. Tralascio, in sede di conclusione, un’analisi particolareggiata di elementi ovvi – come, per esempio, l’impatto dei numero eccessivo di partecipanti e dei ritmi convulsi sulla comprensione globale del processo tecnico, narrativo e sociale.

Ugualmente, noto in rapidità che l’impossibilità di osservare il percorso di diffusione dei due video, avvenuto dopo la mia partenza dalla Repubblica Dominicana, non permette di far entrare in questo racconto una dimensione fondamentale dei percorsi di PV, quella dell’impatto in arene di sfera pubblica locale.

Mi concentro invece su due elementi che possono essere generalizzati: la composizione del gruppo e la dicotomia fra dimensione metropolitana e dimensione comunitaria.

3. Conclusioni. PV, Contesto Urbano, Dimensione Comunitaria

3.1. la composizione del gruppo

Avere a che fare con un gruppo composto da leader comunitari di diversa provenienza ha costituito più un problema che una risorsa. Ad un primo livello, una quantità eccessiva di tempo ed energie sono stati dedicati al lavoro di formazione del gruppo, e le differenti opinioni nello stesso hanno reso faticose ed a volte tese le discussioni.

Ad un livello un po’ più profondo, è mancata la possibilità di lavorare su identità e bisogni di gruppo, strumento fondamentale nella formazione, ed unica garanzia possibile di una continuità – che, in questo caso, poi sostanzialmente non c’è stata.

Infine, gli ampi differenziali di competenze di partenza all’interno del gruppo - alfabetizzazione informatica in primis- hanno comportato una certa polarizzazione all’interno del gruppo, che non è mai diventata realmente conflittuale ma che denunciava un gap di potere.

Simile problema di ineguale distribuzione di saperi e di poteri si incontra, più in generale, nell’introduzione del montaggio. Questo da una parte è elemento fondamentale per poter immaginare una continuità successiva al momento della formazione; dall’altra, va introdotto con cautela, e solo quando razionalmente possibile. Se i tempi sono veramente troppo stretti, probabilmente è meglio evitare l’esacerbazione nei rapporti di potere e la diffusione di frustrazione rispetto al percorso ed affidare il montaggio al formatore.

Per generalizzare, è possibile affermare che, per ottimizzare le possibilità formative e trasformative di un percorso di PV, il gruppo di partecipanti dovrebbe essere il più possibile omogeneo al suo interno, e possibilmente già formato prima del percorso. Questa è una garanzia anche di maggiore continuità, dato che c’è un soggetto collettivo a cui lasciare la titolarità delle attrezzature.[14]

Questo vale a maggior ragione in una dimensione urbana, in cui le forze centrifughe sottopongono ogni tipo di gruppi a pressioni e dispersioni. Ciò ci porta al secondo punto:

3.2. la dimensione urbana // la dimensione comunitaria

La dimensione urbana non è la più adatta ad un laboratorio di PV.

Questo per le ragioni *classiche* di maggior impatto del video in ambiti rurali - che però, come abbiamo visto in 1.3, possono essere rovesciate. E questo anche, e forse soprattutto, per la difficoltà di individuare quali persone o gruppi sociali raccontare, ed a chi farlo.

Nel vasto mare cittadino, l’approccio PV probabilmente funziona solo quando approda alle isole: alle piccole o grandi comunità che compongono la città, che ne fanno parte e che allo stesso tempo ne sono escluse.

E’ quello che è stato fatto con “Desalojos Cero”, ed in particolare con la comunità di Villa Esfuerzo. Il racconto si è fatto organico, e realmente condiviso, senza per questo perdere la complessità e la molteplicità di pubblici raggiungibili tipica della dimensione urbana.

Rivolgersi, al contrario, ad una categoria trasversale- e peggio ancora, ad una categoria non molto nota, come nel caso di “Ninos del Sol” rischia di portare al naufragio. Nella migliore delle ipotesi si impara, com’è successo, come NON affrontare il problema, e si inizia a ragionare su come affrontarlo – che, a ben vedere, nella formazione di leader urbani forse non è un risultato di poco conto.


4. Bibliografia

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[1] Un processo di produzione video senza sceneggiatura prestabilita, diretto e prodotto dal basso (grassroots), che si sviluppa in un movimento ciclico di ripresa e visione delle immagini. Lo scopo del processo è quello di creare delle narrative audiovisuali che comunichino ciò che i partecipanti al processo realmente vogliono comunicare, nel modo che a loro sembra adeguato. (Johansson et al.,1999, 35)

[2] Il processo si era di fatto avviato prima, con l’incarico a Fred Earle come field worker nell’isola per il dipartimento di extension della MUN, ed è proseguito per tutti i primi anni ‘70

[3] iI video catalizzò l’attenzione dei presenti, e stimolò discussioni che Earle, fino a quel momento, aveva avuto molte difficoltà ad ottenere. L’entusiasmo – e l’ostinazione di Earle – furono notevoli: nel corso del primo anno del processo, i film vennero proiettati in trentacinque diverse occasioni, per un pubblico complessivo stimato attorno alle 3000 unità (su 5000 abitanti).

[4] Per quanto il video sia sconosciuto alla comunità, è comunque un mezzo che la gente normale (ordinary people) utilizzare e controllare e, se hanno il tempo di familiarizzarvi in un contesto pubblico, possono essere incoraggiati ad imparare da esso e non averne paura o lasciarsi mistificare. Il suo successo necessita la proiezione delle cassette ed una discussione basata su quello che le cassette hanno mostrato.

[5] L’impatto istantaneo delle proiezioni fu particolarmente evidente ad un assemblea comunitaria a Lords’ Cove, in cui il playback dell’incontro diede ai presenti l’opportunità di vedere la terrificante mancanza di partecipazione e di osservare la propria apatia. Come risultato di questa presa di coscienza (realization), l’incontro venne ripetuto in un'altra data, ricevette una partecipazione più ampia e produsse l’elezione di nuovi rappresentanti.

[6] Un’altra cosa che il community worker può fare è di prendere le cassette realizzate con un gruppo in un villaggio e mostrarle allo stesso tipo di gruppo in un altro villaggio. I video (...) diventano una nuova forma di apprendimento. Questo è noto come apprendimento orizzontale, e sta venendo sempre più unanimemente riconosciuto in tutto il mondo come una componente essenziale dell’educazione, in genere (ma non esclusivamente) fra adulti. La gente del villaggio può usare il video per raggiungersi a vicenda, all’interno dello stesso villaggio o fra il proprio villaggio ed altri villaggi, e lo sta facendo in misura crescente.

[7] In particolare nei circuiti di feedback interno.

[8] Tanto nei circuiti di feedback interno che in quelli di feedback orizzontale.

[9] The techniques described here can orient the community worker's use of video with village people are primarily for audiences that are illiterate and uneducated. (Snowden, 1983)

[10] Nonostante l’immensa differenza in termini di diffusione della tecnologia audiovisuale fra i giorni nostri e quelli in cui si è svolto il Fogo process, e nonostante la diffusione di forme dialogiche spontanee e non sperimentali di uso del video (ad esempio, i threads audiovisuali di risposta in coda a molte clip caricate su youtube), mi sembra di poter ancora affermare che il video è tuttora un mezzo di comunicazione sostanzialmente monodirezionale.

[11] Occorre però, evidentemente, andare oltre l’uso del video come specchio ed inserire fin dalle prime fasi del processo la coscienza di stare producendo un testo audiovisuale che pretende di inserirsi in un mainstream.

[12] Hanno partecipato alle giornate di formazione una quarantina di leader di quartieri popolari e facilitatori provenienti da Argentina, Bolivia, El Salvador, Haiti Messico, Perù, Puerto Rico, Italia, Regno Unito, Venezuela e Repubblica Dominicana. L’incontro era organizzato con la collaborazione del dipartimento di Urbanistica dell’Università Autonoma di S. Domingo (UASD) e del principale referente dominicano della Rete, Coophabitat .Per altere e più specifiche informazioni: http://it.habitants.org/article/view/1875/.

[13] Due comunità che avevano subito uno sfratto violento, e che stavano occupando il loro terreno, rispetttivamente a Brisa del Este ed a Villa Esfuerzo, sobborghi di Santo Domingo

[14] Che in questo caso sono restate all’associazione che coordinava la rete, COOPHABITAT


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